“Sono stato un adolescente pieno di illusioni. E poi queste sono volate via. Ho condiviso giudizi e pregiudizi. Oggi vivo una piacevole e mediocre comodità. Mi sto rieducando leggendo in molte lingue. Tra qualche anno sarò di nuovo un ragazzo colto”.
Così diceva l’allora ottantaquattrenne Demetrio Volcic, per anni voce familiare della radio italiana da Mosca e Berlino, al giornalista di Repubblica che lo intervistava nel 2015. Parole ritrovate sui giornali in occasione della sua morte, nei giorni scorsi.
Non sono in grado di leggere in lingue diverse dall’italiano, ahimè. Ma in qualche modo mi ritrovo, nel mio piccolo, in quelle sue parole.
Sto scoprendo, per la prima volta da adulto, Moby Dick. Lo centellino, cercando di cogliere le sfumature suggerita da Cesare Pavese con la sua traduzione.
Alberto Maritati alcuni giorni fa mi ha donato il suo racconto, pubblicato da Laterza con il contributo del Consiglio Regionale della Puglia. Finalmente! Finalmente è possibile leggere la storia completa di quegli anni che, dal 1974 al 1978, hanno tenuto con il fiato sospeso non solo l’allora pretore di Otranto Maritati, ma milioni di persone in tutto il mondo. A cominciare dagli otrantini.
Erano anni per me difficili anche dal punto di vista personale. Insieme ad altri ragazzi curavo un giornale locale, “Otranto2000”, eravamo molto presenti in tutte le vicende che riguardavano Otranto. Ed erano anni in cui compivo, cambiavo, scelte di vita fondamentali. Cominciava anche l’amicizia personale con Alberto, che diventò poi collaborazione e che permane.
Sapevo che desiderava riassumere quella vicenda che lo aveva portato alla ribalta internazionale: aveva risolto, nonostante mille avversità di ogni genere, un problema tremendo per Otranto e il suo mare. Ho letto con ansia le 150 pagine in un attimo: una scrittura agile, chiara, essenziale: si legge come un’avventura, un giallo con continui colpi di scena. Sono narrati i fatti, nella loro semplice successione, così come li ha vissuti quotidianamente Maritati: i timori, le difficoltà tecniche, i contrasti, le decisioni difficili e coraggiose, gli attacchi dei politici locali, il silenzio iniziale della stampa locale e poi le campagne di appoggio di Domenico Faivre della Gazzetta del Mezzogiorno e di Antonio Maglio della Tribuna del Salento (“madre” del Quotidiano di Lecce Brindisi Taranto).
Mi ha riportato alla mente quegli anni. Fatti e persone che conoscevo, momenti che avevo vissuto, e particolari per me inediti o scomparsi in qualche angolo della mente. Non ricordavo, ad esempio, che Maritati avesse contattato ad un certo punto direttamente Eni Pietro Sette, dal 1959 nel CdA e dal 1975 presidente dell’Eni, un pugliese amico personale di Aldo Moro. Un grande manager, molto potente in quegli anni, nome che a noi otrantini diceva qualcosa: nella sua qualità di presidente della Efim, e della Efim Insud, era stato tra i protagonisti delle partecipazioni statali nel comprensorio turistico di Alimini. Conosceva Otranto insomma, e le prospettive turistiche della Puglia, e forse anche per questo fu tra i primi “pezzi grossi” a capire e sostenere l’azione di Maritati mettendogli a disposizione la Saipem.
Io avevo vissuto tutta la vicenda dall’esterno, come cittadino e come responsabile del giornale. Sono andato a riprendere Otranto2000 e alcuni numeri de La Tribuna del Salento.
L’Amministrazione comunale di Otranto e autorità nazionali democristiane sin dall’inizio della vicenda si preoccupavano dei riflessi negativi per il turismo derivanti dalle notizie sulla stampa. anche internazionale, dei veleni immersi nel mare. E minimizzavano, attaccando in ogni modo il pretore. Se però Maritati era così preoccupato, ragionavano invece molti cittadini, bisognava darsi da fare. E mentre il pretore conduceva la sua battaglia utilizzando i mezzi della legge, i cittadini, i partiti della sinistra, i sindacati, si misero all’opera: assemblee, dibattiti, pressioni verso i politici locali e non.
Il 30 novembre 1976 La Tribuna del Salento usciva con questa prima pagina:
In una pagina interna si riassume la vicenda e si riferiscono le ipotesi, anche le più fantasiose, sui ritardi del recupero.
Non si capiva cioè cosa stesse succedendo. La stampa internazionale premeva. Alcuni scienziati insistevano sui pericoli del piombo tretraetile. Maritati nel libro spiega il suo lavoro dietro le quinte, le difficoltà giuridiche politiche economiche che stava affrontando. La soluzione dei problemi era più difficile di come immaginava l’opinione pubblica.
Ma qui mi interessa ricordare quel che accadeva ad Otranto. Premessa: la DC otrantina, che aveva il consenso della maggioranza dei cittadini, e governava tranquillamente il paese, non vedeva di buon occhio questo pretore che agiva avendo in mano e in testa la Costituzione, senza inchinarsi ai maggiorenti paesani. L’opposizione, allora erano socialisti, sin dai primi mesi del 1975 aveva sollecitato l’Amministrazione a darsi da fare. Se ne era parlato nel Consiglio comunale del 4 febbraio 1975, e poi in consigli successivi. La maggioranza assicurava, tranquillizzava, spediva telegrammi a ogni più alto livello…ma nulla più. Anzi no: l’accusa più leggera a Maritati era di “televisite”, di danni al nostro turismo. Poi pian piano si muovono i cittadini. Nascono comitati popolari; i partiti di sinistra, il PCI anzitutto, e i sindacati organizzano assemblee con la partecipazione degli organismi provinciali e i cittadini dei paesi vicini: si capisce che serve la pressione della base per coadiuvare il pretore Maritati e per spingere il governo ad intervenire. Anche alcuni dell’Amministrazione si muovono, e tentano di mettersi alla guida del movimento popolare. Il sindaco Totò Miggiano è il più veloce a capire la situazione.
Quel che avviene, sino all’epilogo, lo racconta Maritati nel suo libro.
Ma le polemiche ad Otranto continuano. Nell’aprile 1978 Otranto2000 ospita in due paginoni la posizione dei consiglieri comunali di opposizione, Stefanelli Ottini Cariddi Marcucci. Raccontano nel dettaglio, con documenti e riferimenti precisi, tutta la vicenda. Avevano proposto il conferimento della cittadinanza onoraria al pretore Maritati e in consiglio, il 7 ottobre 1977, il sindaco relazionò a lungo, sostenendo per altro che la proposta era provocatoria, capovolgendo un po’ tutta la storia: accusava la minoranza di aver voluto “ricucire una verginità mai avuta, nascondendosi dietro l’azione valida e coraggiosa di un magistrato che ha operato applicando la Legge e la Costituzione Italiana”.
Di seguito riporto alcuni pezzi di Otranto2000.
Ottobre 1976
Febbraio 1977
Due bambine della IV A della scuola elementare “Ulisse Corazza” di Parma (via Fratelli Bandiera) avevano scritto ai pescatori di Otranto: sul giornale pubblicammo alcune riflessioni e uno dei disegni. A Maritati materiale simile arrivava da moltissime scuole italiane.
Sullo stesso numero pubblicammo anche la lettera di mons. Michele Mincuzzi, vescovo di Ugento, a Maritati.
Nel maggio 1977 ci chiedevamo:
E poi riceviamo questa letterina:
Agosto 1977
La locale DC aveva pubblicato un foglio “Il caso Cavtat, oggi” spiegando la “vera” storia della nave e dei loro eroici tentativi di salvare il nostro mare. Così si spiega il nostro articolo e la vignetta. (infantile, a dire il vero, perché pensavamo il 1999 come data lontanissima, pur avendo nel nostro titolo l’obiettivo del 2000. In realtà doveva arrivare il 2021 per conoscere, con il libro di Maritati, l’intera vera storia!).
Nello stesso numero riportiamo la notizia che il compianto consigliere regionale Totò Fitto aveva presentato una proposta di legge regionale per il “recupero n. 2”, cioè per il rilancio dell’immagine turistica di Otranto e della Puglia. Va ricordato che Totò Fitto era stato uno dei pochi politici a ripetere sin dall’inizio che il recupero andava fatto assolutamente, e che la Regione avrebbe dovuto assumersi subito gli oneri.
Febbraio 1978: riscrivono le ragazze di Parma mentre Fitto fa sapere che la sua proposta di legge incontra difficoltà impreviste…
Un bidone dopo l’altro, Maritati sempre “con l’anima di fuori” come si dice dalle nostre parti, il recupero va avanti.
Inevitabile per la DC locale pensare a una grande festa di ringraziamento, magari con i ministri Ruffini e Lattanzio e ovviamente Maritati, che dal sindaco Miggiano ormai era chiamato “faro di luce e di speranza per noi otrantini”.
E la festa si fa.
Ne scriviamo nell’aprile 1978.
Ma non è finita. Nel numero di giugno 1978 trovo quest’ultimo pezzo:
Voglio però concludere questa personale rievocazione con l’editoriale pubblicato nel febbraio 1977. Suscitò un po’ di rumore e qualche malumore, in paese. A me piacque molto perché rispecchiava il nostro pensiero in pieno e, sicuramente, il pensiero di Alberto Maritati, come il suo libro dimostra.
E infine, solo nel 1996, per iniziativa del sindaco Francesco Vetruccio, viene apposta questa targa:
il momento più bello, più divertente, del nostro giocare a pallone da ragazzini, era quello delle “marciotule”, il dribbling diciamo oggi, il superare palla al piede l’avversario, uno contro uno. il gol di Douglas Costa ieri sera è uno di quei momenti che ti esalta, che ti riconcilia con il calcio, che ti fa dimenticare gli interessi i soldi le magagne le schifezze che ruotano intorno a questo gioco. una serie di marciotule, il giocatore che si lancia e si incunea tra una selva di avversari, li supera uno ad uno in una frazione di secondo, ne esce con la palla al piede e la porge ad un compagno che gliela restituisce con un tocco e con un’altra marciotula beffa l’ultimo avversario e poi il portiere. non ce ne sono molti, ormai, calciatori capaci di esaltarti così. Pelè, Sivori, Maradona, Messi (ecco perché lo preferisco a Ronaldo). un tempo c’erano le ali capaci di dribbling in serie, Jair, Causio, per fermarmi a quelli che ho visto, e poi gli immensi della storia del calcio, come ad esempio Garrincha. le nostre partite interminabili “dietro il distaccamento” o nella piazzetta davanti alle suore, intorno alla palma, erano una ricerca continua del più bravo a fare le marciotule. fine degli anni cinquanta, quando ancora urlavamo “enze” per chiamare il fallo di mano. ricordo, ma non vorrei che qualcuno si offendesse, che tra più bravi a fare le marciotule erano per esempio Orlando Paiano (ziu rlandu), o Gigi Carpentieri – era più grande di noi fisicamente e si incollava la palla al piede e girava girava facendoci impazzire sino a quando si stancava e gli toglievamo la palla per sfinimento. durante le partite in seminario c’erano i furbetti che “nascondevano” la palla sotto la veste da prete e si divertivano a dribblarci tutti: mi sta venendo in mente Antonio Scotellaro che penso sia ancora parroco a Caprarica o Caliandro, in liceo, che poi è diventato vescovo, ed era un massiccio difensore che si faceva tutto il campo dribblando e travolgendo chiunque. il sogno di tutti, sono le marciotule. per questo non mi piacciono molto la premier, schemi potenza velocità, o gli schemi che ingabbiano e mortificano la fantasia. la partita fra Juve e Lokomotiv era bloccata, sonnacchiosa, una parità sostanziale. poi un attimo di follia, di incoscienza, di coraggio, di velocità, di genialità, una serie di marciotule, e la vittoria, la festa.
uno dei privilegi del rimanere in casa, a letto per qualche malessere o linea di febbre, consisteva nel poter vivere la routine della mattinata casalinga. scoprire quindi suoni voci rumori profumi quasi sconosciuti, diversi da quelli della scuola. nel silenzio felice della casa e della strada ogni suono era nuovo, richiedeva attenzione, riempiva l’attesa del pranzo. l’orologio della piazza inesorabile ogni quarto d’ora. i rumori e i profumi provenienti dalla cucina. le chiacchiere della mamma o della zia con le vicine, giù all’ingresso o dal balcone. i bambini dell’asilo che rispondevano in coro alle domande delle suore o cantavano o si rincorrevano urlando sotto le querce gigantesche – l’asilo delle suore, che avevo frequentato anche io, era proprio di fronte alla mia casa: e sotto le querce giocavano a turno anche i bambini delle elementari le cui aule erano nello stesso complesso ma separate dal grande giardino delle suore. la Margherita della ‘Nzilla, la sentivo dal balcone di dietro, quello della camera da letto, che cantava meravigliosamente mentre rassettava la sua casa. i richiami dello spazzino con la ciuccia, dei venditori ambulanti, ciascuno con la sua forza e la sua voce caratteristica. l’ape di Convenga – non c’era bisogno della sua voce, il richiamo era il rumoroso motore dell’ape – e si fermava proprio sotto casa mia dopo la tappa vicino alla palma di piazza Castello: e dalle abitazioni circostanti scendevano le mamme per l’acquisto della frutta quotidiana, adeguatamente mercanteggiando su prezzi e qualità. la voce più attesa era quella del postino. Spaaarrooooo! non ricordo con sicurezza il nome, mi sembra Ccillo o Ciccillo, forse pochi conoscevano il cognome, Campanile, ma ricordo perfettamente la sua figura grassoccia, l’atteggiamento di sicura serietà decisione ed efficienza, forse non rideva mai sul lavoro, consapevole della importanza e delicatezza del suo compito. la radio, i giornali, la posta erano gli unici collegamenti con il mondo. il nostro postino era di una importanza decisiva: tutti da lui attendevamo sempre qualcosa. una cartolina, una notizia lieta o angosciante di parenti lontani o di un paese a qualche chilometro di distanza; un catalogo – postalmarket, euronova; un giornale – Selezione dal Reader’s Digest, Lo Scolaro, Il Vittorioso, Il Corriere dei piccoli. la delusione quando chiamava altri cognomi, li sentivo, e non arrivava l’atteso Spaaarrooooo: oggi niente, diceva qualcuno di casa. la posta passava anche il pomeriggio ma non lo ricordo come un avvenimento. ci sono stati altri postini, nel tempo. Pino, Vittorio, Dante…sempre importanti nella vita del paese. il mio compare Pino era diventato una autentica istituzione – prima della sua voce arrivava il rumore del suo motorino; spesso aveva fretta. oppure si fermava per qualche consiglio, qualche aggiornamento extrapostale: era diventato un punto di riferimento popolare e politico. ma io ero già cresciuto, la felicità della mattina a letto era già solo un ricordo.
Confesso di aver rinunciato per molto tempo a leggere Elena Ferrante, i quattro volumi de L’Amica geniale. Un po’ di snobismo, il fastidio per questa/o autore che si nasconde, la casa editrice che non pubblica i volumi in edizione economica, il fatto che anche negli Usa la Ferrante fosse diventata di moda… Poi mi è capitato di vedere in tempi recenti il docu-film “Ferrante Fever”. Le testimonianze di Franzen, Elisabeth Strout, Nicola Lagioia… mi hanno convinto a provare la lettura. Ho letto i quattro volumi tutti di seguito, con piacere crescente. Un romanzo “nazionale”, un racconto intenso dell’Italia, gli ultimi decenni della nostra storia nazionale ben delineati sullo sfondo delle vite delle persone. Vite intense, misteriose, comuni, riuscite o fallite. Donne in perenne fatica per essere donne, anche quando non sanno cosa significhi o possa significare. Uomini comuni anche quando raggiungono vette di non si capisce cosa. E l’essere donne e uomini in un contesto spazio temporale ben definito finisce per travalicare quel contesto diventando problematicamente universale.
(i brani che riporto sono tratti dall’ultimo volume)
Che fare dunque? Darle ancora una volta ragione? Accettare che essere adulti è smettere di mostrarsi, è imparare a nascondersi fino a svanire? Ammettere che più gli anni avanzano, meno so di Lila?
Era un uomo che sprigionava autorità, anche se l’autorità è una patina e a volte basta poco perché, seppure per qualche minuto, metta crepe e si intraveda un’altra persona meno edificante.
E poi rise, si tirò su dalla poltrona, disse oscuramente che secondo lui l’amore finiva solo quando era possibile tornare a se stessi senza timore o disgusto, e uscì dalla stanza strascicando il passo, come se volesse assicurarsi della materialità del pavimento.
Ci restava male – devo dire – anche quando riducevo a dimensioni comuni persone note con cui avevo avuto a che fare.
<<Quindi>> concluse una mattina, <<questa gente non è quello che sembra>>.
<<Niente affatto, spesso sono bravi nel loro lavoro. Ma per il resto sono avidi, godono a farti del male, stanno coi forti e si accaniscono contro i deboli, formano bande per combattere altre bande, trattano le donne come cagnoline da passeggio, appena possono ti dicono oscenità e ti mettono le mani addosso esattamente come negli autobus qui da noi>>.
<<Stai esagerando?>>.
<<No, per produrre idee non è necessario essere santi. E comunque gli intellettuali veri sono pochissimi. La massa dei colti commenta pigramente per tutta la vita idee altrui. Le loro migliori energie le impegnano in esercizi di sadismo contro ogni possibile rivale>>.
Amavo la mia città, ma mi strappai dal petto ogni sua difesa d’ufficio. Mi convinsi anzi che lo sconforto in cui finiva presto o tardi l’amore fosse una lente per guardare l’intero Occidente. Napoli era la grande metropoli europea dove con maggiore chiarezza la fiducia nelle tecniche, nella scienza, nello sviluppo economico, nella bontà della natura, nella storia che porta necessariamente verso il meglio, nella democrazia si era rivelata con largo anticipo del tutto priva di fondamento. Essere nati in questa città – arrivai a scrivere una volta, pensando non a me ma al pessimismo di Lila – serve a una sola cosa: sapere da sempre, quasi per istinto, ciò che oggi tra mille distinguo cominciano a sostenere tutti: il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte.
Fu la prima volta, ricordo, che ci fantasticai sopra, ma non ressi a lungo, mi affacciai su un pozzo scuro con qualche scintillio di luce e mi ritrassi. Ogni rapporto intenso tra esseri umani è pieno di tagliole e se si vuole che duri bisogna imparare a schivarle.
…contemplavo serenamente i corpi giovani, carichi di energia delle mie figlie. Mi assomigliavano tutte e nessuna, la loro vita era lontanissima dalla mia e tuttavia le sentivo parte inscindibile di me. … Oh loro appartengono ormai ad altri luoghi e ad altre lingue. Considerano l’Italia un angolo splendido del pianeta e, insieme, una provincia insignificante e inconcludente, abitabile solo per una breve vacanza. … Sono fiere di me e tutta via so che nessuna di loro mi sopporterebbe a lungo. … Il mondo è prodigiosamente cambiato e appartiene sempre più a loro, sempre meno a me. … Hanno modi, voci, esigenze, pretese, consapevolezza di sé che io ancora oggi non oso permettermi. Altri, altre non hanno questa stessa fortuna. Nei Paesi di qualche agiatezza è prevalsa una medietà che nasconde gli orrori del resto del mondo. Quando da quegli orrori si sprigiona una violenza che arriva fin dentro le nostre città e le nostre abitudini, sussultiamo, ci allarmiamo.
La commessa aveva chiesto al giovanotto che mi precedeva alla cassa se intendeva donare qualcosa per l’Emporio della solidarietà. Il giovane era perplesso, non capiva, poi ha detto: “va bene, metti i 9 centesimi che mi devi come resto”. Io invece avevo già deciso per una donazione più significativa che ha meravigliato la commessa. Ha ripetuto mille volte che mi ringraziava di cuore, proprio di cuore. Con una insistenza e una dolcezza che ha meravigliato me…
Il fatto è che l’iniziativa della Conad e dell’Emporio della Solidarietà non è ben pubblicizzata. Pochi capiscono di cosa si tratta e non sono invogliati ad approfittare della “comodità” offerta da Conad.
“Emporio della solidarietà” è una iniziativa promossa dalla comunità Emmanuel di Lecce e da altre associazioni. Ricevono in donazione da varie parti beni di prima necessità e li distribuiscono in modo mirato a chi ne ha bisogno. Le richieste aumentano quotidianamente. È necessario quindi che i beni arrivino costantemente all’Emporio. La Conad ha deciso di sollecitare i propri clienti a donare delle somme addebitando il dono sullo scontrino e consegnando mensilmente all’Emporio i prodotti destinati alle famiglie in difficoltà.
A proposito: tu che leggi sei passato da Conad? Potrebbe essere un ottimo modo per cominciare bene l’anno, augurando serenità a chi vive in difficoltà.
“Si immagina sempre che alla fine arrivi un po’ di serenità. Una qualche forma di serenità. Non solo un penoso disastro di merda e dolore e lacrime. Un po’ di serenità. qualunque cosa significhi. E più il momento si avvicina, più quel significato diventa astruso. Amemus aeterna et non peritura. Sembrerebbe un buon consiglio, se si è in cerca di serenità. Solo che c’è sempre quel problema – che cosa si intende per aeterna? Che cosa è eterno, a questo mondo? Ovunque Tony guardi, dalla pelle cadente delle sue mani di vecchio, che non sente poi così sue, visto che non si pensa come un vecchio, fino al sole che diffonde una luce bianca sul piatto paesaggio circostante – ovunque guardi, vede solo peritura. Solo ciò che passa.”
In libreria ero stato attirato dalla foto. Forse avevo letto da qualche parte una segnalazione. Non impazzisco di piacere per i racconti ma questi li ho letti tutto d’un fiato, come fosse un unico lungo racconto, un romanzo. Alla fine, solo alla fine, ho letto il risvolto di copertina e ho avuto la conferma del senso unitario di ciò che avevo letto: “Nove uomini, in diverse età della vita, dall’adolescenza alla vecchiaia. … I nove fanno quasi tutte le cose che i maschi sono soliti fare: inseguono donne, le abbandonano, tentano un affare improbabile, cercano un luogo dove vivere un esilio decente, chiacchierano, sognano un’altra vita. E se ad ogni capitolo tutto – protagonista, ambiente, atmosfera – cambia, fin dal primo stacco le nove storie sembrano una sola.”
Nessun capitolo, nessuna storia, ha una conclusione, un finale. Ciascuno può pensare quello che crede. “Ciò che abbiamo davanti si rivela per quel che è, in tutta la sua perturbante evidenza: il nostro tempo, quello che viviamo ogni giorno, in forma di romanzo”.
Mario Cazzato è un serio competente appassionato ricercatore di perle salentine e non solo. Spesso ci insegna anche a vedere con occhi diversi quello che ci circonda e che guardiamo abitualmente senza consapevolezza. Lo ringrazio.
Quest’anno in occasione del Natale ci ha donato la riproduzione di un dipinto del quale scrive:
UNA NATIVITÀ SALENTINA DEL 1542 DIPINTA AD OTRANTO. Eseguita da Donato Bizamano pittore di origini cretesi ma operante ad Otranto nella prima metà del Cinquecento. Si noti, in alto, al centro, Betlemme raffigurata come Otranto, cinta cioè da mura con la cattedrale svettante al centro. Bellissimo il paesaggio, forse sullo sfondo sono raffigurati i monti dell’Albania. Notevole, inoltre la cavalcata dei Magi e le rovine classiche in primo piano.
Anche io con questo dipinto otrantino rivolgo i miei auguri di serenità a tutti coloro che si trovano a passare da qui e ai miei amici e parenti vicini e lontani.
«Quando si vuole portare un Paese da qualche parte, bisogna avanzare a tutti i costi, non bisogna cedere, non bisogna cadere nelle abitudini e, en même temps, allo stesso tempo, bisogna avere la volontà di ascoltare. Ascoltare le persone significa accettare la loro parte di rabbia e di sofferenza, che è spesso qualcosa di irriducibile. Non sono qui per promettere la felicità ma posso riconoscere questa parte irriducibile, questa singolarità di ogni vita: è il solo modo per rispettarle».
E ora che è al potere, penso: «Sarebbe bello che ce la facesse». Ma che cosa vorrebbe dire “farcela”? Che entra nella storia? Che trasforma la Francia? Che ne fa un Paese di start-up dove ognuno può essere imprenditore di se stesso, e la sola legge che conta è l’efficienza? E che dopo rifonda l’Europa — perché a un certo punto la Francia gli parrà troppo piccola per lui? Tutto ciò è possibile. O meglio: non impossibile. È anche possibile che impazzisca — c’è sempre questo rischio quando tanto potere ti piomba addosso così velocemente. O, semplicemente, è possibile che fallisca, che si unisca alla galleria di uomini politici ambiziosi che hanno cercato la terza via, sono caduti sul principio di realtà e hanno finito per governare come chiunque altro. Questa è la sua grande paura, credo, quella che gli fa dire: «Se non trasformerò radicalmente la Francia, sarà peggio di non aver fatto nulla».
da un lungo interessante articolo di Emmanuel Carrère per il Guardian, pubblicato in italiano sul magazine IL de il Sole24ore
Andiamo a trovare amici e conoscenti per gli auguri di Natale. Ovunque la sensazione, anzi l’espressa manifestazione di attesa, di gioia per l’attesa: arrivano, tornano i figli. Da vari angoli d’Italia e d’Europa. Chissà se i figli si rendono conto di questa attesa e di questa gioia. Anche quando di fatto “turbano”, alterano i ritmi quotidiani. Se poi ci sono dei nipotini… Forse il Natale è tutto qui.